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SALARIO MINIMO E STATUTO SPECIALE DELL’AUTONOMIA SICILIANA


Il sasso nello stagno, come si usa dire, l’ha gettato il presidente dell’Eurogruppo, il lussemburgheseJean Claude Juncker, nella sua ultima audizione all’Europarlamento, affermando l’esigenza della “dimensione sociale” dell’Europa e proponendo l’introduzione del salario minimo legale, una soglia minima retributiva fissata per legge a prescindere dalla contrattazione collettiva, contestando, nel contempo, un’azione comunitaria “che non si può limitare alla semplice austerità punitiva”.
In Italia la proposta ha raccolto posizioni contrastanti e, in alcuni casi, ha suscitato equivoci con il “reddito minimo” di cittadinanza (è il caso di Eugenio Scalfari), che, però, è un istituto delle politiche di
welfare a sostegno di inoccupati e disoccupati, come nel caso del “reddito minimo garantito” (revenu minimum d’insertion), istituito in Francia – ultimo paese in Europa ad adottare una forma di reddito minimo garantito nel 1988 e aggiornato nel 2009 con il revenu de solidarité active: un reddito minimo senza limite di durata per chi non lavora, inesistente in Europa solo in Italia e in Grecia. Come sostiene un intellettuale della “gauche” francese, Alain Touraine, si tratta di rendere economicamente più conveniente il salario minimo percepibile con un lavoro rispetto all’assistenza sociale derivante dal reddito minimo garantito.
Nel Parlamento Europeo circola una proposta di disciplina comunitaria che prevede l’introduzione di un salario minimo per tutti i cittadini del vecchio Continente, per azzerare le evidenti disparità che sussistono tra i territori dove non è presente alcun livello retributivo minimo mensile stabilito per legge, mentre dove è previsto ci sono oscillazioni tra il Lussemburgo, con un salario minimo fissato nell’invidiabile cifra di 1.801,49 euro, fino ai 180 euro (un decimo del ricco partner europeo) della Bulgaria, per una media europea che non riesce a giungere ai 1.000 euro.
In ogni caso le retribuzioni in Europa hanno goduto di una grande discrezionalità su base nazionale, tanto che ad esempio già nel 2010 l’OCSE evidenziava forti disparità a livello continentale, con l’Italia che si collocava tra gli ultimi in classifica, con una retribuzione media di poco più di 14.000 euro all’anno (meglio solo di Portogallo, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria). Il problema in Italia è che dai contratti nazionali non sono affatto protetti i 4-5 milioni di lavoratori precari, non tutelati dalla contrattazione collettiva, che la crisi ha reso sempre più marginali. Per questi il salario minimo legale, fondato sui principi oramai storicamente definiti dalla giurisprudenza costituzionale, sulla base dell’art. 36 della nostra Carta fondamentale, sarebbe un significativo risultato.
E in Sicilia? Come è noto l’art. 17, lettera f), attribuisce alla nostra Regione potere di legislazione concorrente in materia di “legislazione sociale, rapporti di lavoro, previdenza ed assistenza sociale”, che storicamente è stato apprezzato in connessione sistematica con la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha tenuto sempre un orientamento restrittivo circa l’intervento legislativo della nostra Regione in materia di rapporti interprivati, mentre non costante è stato l’indirizzo in materia di tutele sociali e di disciplina del mercato del lavoro (su questo tema rinvio al mio libro “Diritto del lavoro, federalismo, Statuto speciale siciliano, Giuffrè Editore, 2011). Considerando anche la novella del 2001 dell’art. 117 della Costituzione un intervento della Regione siciliana appare problematico, anche se esso potrebbe essere una “provocazione” politico-istituzionale, per riaprire il confronto tra Stato e Regione circa la piena applicazione dello Statuto speciale e la sua evoluzione nel mutato contesto socio-economico.

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